lunedì 30 maggio 2011

Lettera da Atene



28 maggio, Manifesto in piazza ad Atene


Zitti che svegliamo gli italiani...parole dei greci indignati.
Parole che sono partite per prima dalla Spagna e sono arrivate in Grecia. I greci si sono svegliati e hanno ringraziato gli spagnoli. Sapevano che li volevano al loro fianco. Forse ora tocca ai greci chiedere aiuto agli italiani. Un popolo che chiede aiuto ad un altro popolo, senza violenza ma con la possibilità di manifestare i propri disaggi. La voglia di avere un paese dove tutti i cittadini hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri.


O è una pesantissima ironia?


Se si svegliano gli italiani si sveglierà tutta Europa.


E  forse è l'ora.

venerdì 27 maggio 2011

Cosa sta succedendo in Siria?




La difficoltà principale, per noi che assistiamo da lontano agli eventi, consiste nell'accertare la veridicità delle notizie. I reportage degli inviati italiani sono viziati dal fatto che nessuno di loro è presente nelle città teatro delle presunte carneficine, come Dera'a, Banyas o Douma. La maggior parte dei giornalisti, infatti, si trova nelle capitali dei Paesi limitrofi - Tel Aviv, Amman e Beirut - e riferisce informazioni raccolte da siti web e social network. Un governo autoritario in palese difficoltà che, dinanzi a una crisi politica irreversibile, anche perché generazionale, sceglie il pugno di ferro anziché il dialogo.
Ma é possibile arrivare allo stesso scenario libico e perchè ora i paesi occidentali stanno molto più attenti, nonostante l'aumento della violenza nel paese?
La Siria non è dello stesso calibro e  della stessa importanza come la Libia.Sono due regioni differenti, due casus diversi.
Anche la specifica nazionale della Siria è  diversa di quella libica. Sia come posizione geopolitica, sia come risorse naturali e influenze esterne. Molto importante è la differenza nel quadro interno.In Libia abbiamo una composizione tribale molto complessa. Siria invece è uno stato relativamente laico, però comunque composto da 19 confessioni religiose- Sunniti, Sciiti, Alawiti, Drusi, Cristiani Ortodossi, Cristiani di rito Orientale e Occidentale.
In Siria si trovano ben quattro etnie diverse: arabi, curdi, armeni e drusi.Il presidente Bashar Al-Asad è un alawita, come il suo padre Hafiz Al-Asad. Gli Alawiti rappresentano una minoranza di meno di 10% della popolazione siriana. Questa situazione predispone il coinvolgimento attivo di fattori esterni- i paesi sunniti.
Sopratutto Arabia Saudita.
Ma anche parte di Libano (la coalizione di Saad Hariri, l'ex premier e capo della coalizione politica Movimento Futuro).
La Turchia, non solo come paese confinante ma anche come paese che difende gli interessi sunniti, approfitta per assumere un ruolo sempre più da protagonista. L'aiuto non è solo di prestigio internazionale, la stabilità siriana garantisce anche l'equilibrio del problema curdo, che preoccupa da sempre Istanbul.
Dal'altra parte la Siria è molto vicina con Iran. Per Teheran il legame con la Siria costituisce un passaporto per la politica nel Medio oriente, che permette di influenzare Libano e territori Palestinesi. All’inizio delle rivolte arabe l’Iran aveva salutato favorevolmente il movimento di protesta, interpretando, in chiave di possibile proprio favore, la destabilizzazione dei regimi oggetto delle manifestazioniPer la Siria invece è stato diverso: Teheran ha da subito sposato la teoria di Asad, che vede dietro alle proteste 
siriane una cospirazione.


Ha legami stretti anche con Hezlbollah.


Però uno dei cori dei manifestanti delle piazze siriane era:
No Iran, No Hezbollah!


Sempre in Siria si trova la sede di Khaled Mashaal, uno dei leader di Hamas (ci 
si riferisce a lui come il braccio siriano di Hamas).
Per Israele il confine con la Siria è uno dei più sicuri e così deve restare,un cambiamento di regime potrebbe suscitare preoccupazioni, è difficile che un cambio di direzione sia favorevole ad Israele. 
Il quadro geostrategico è completamente diverso di quello libico.
Mu'ammar Gheddafi godeva del consensus fino al ultimo: durante gli anni 80 (la sua indole anti-israeliana e anti-americana lo portò a sostenere gruppi terroristi, quali per esempio l'irlandese IRA e il palestinese Settembre Nero, gli atti terroristici (Sicilia,Scozia,Francia),la violazione dei diritti umani, l'isolamento del regime fino a 2005.
Siria invece è stata sempre un paese chiave della regione,una posizione determinante nei fragili equilibri della zona.Senza pace in Siria è impossibile la pace nel Medio oriente.Ecco la risposta.Per questo motivo non ci saranno interventi militari in Siria.
Questi fattori influiscono in modo diverso lo sviluppo degli scenari in entrambi paesi.è ovvio che la comunità internazionale e sopratutto EU e USA cercheranno di evitare un intervento militare diretto per motivi della complessità del contesto nazionale e sopratutto regionale.
Il presidente siriano o deve fare le riforme che gli chiede il popolo o si deve dimettere. Altrimenti sarà compromessa non solo la Siria ma il delicato equilibrio della intera regione.






  

giovedì 26 maggio 2011

La schizofrenia e la politica internazionale

Il Presidente degli USA presenta la sua visione per la politica americana nel Medio Oriente e Nord Africa. Un discorso che doveva aprire un nuovo capitolo nella diplomazia statunitense. Obama sostiene che i confini tra Israele e Palestina devono essere basati su quelli di 1967 (stabiliti dopo la Guerra dei Sei Giorni in cui i palestinesi uscirono sconfitti, Israele conquistò, oltre al totale controllo di Gerusalemme, tutta la Cisgiordania, Gaza, il Golan e il Sinai), così creando frontiere sicure e riconosciute per entrambi gli stati. Parla di cambiamenti nella linea politica americana su di un Medio Oriente, travolto dalle rivoluzioni, che molti intellettuali arabi definiscono Il Secondo Risveglio Arabo. Obama dice che lo Status Quo è insostenibile e qualcosa deve cambiare.
Fin qui, nessuna novità.Si sono sollevati però da subito due movimenti principali.
Il primo: l'appoggio della Lega Araba, Giordania, Egitto, il Quartetto per il Medio Oriente (USA, Russia, ONU, EU), Francia,Polonia, Bulgaria (che ha riconosciuto lo stato Palestinese nel 1988), ecc.
Il secondo: Israele e il lobby filo israeliano AIPAC negli USA che non permetterebbero mai che qualcuno, tanto meno un presidente americano decidesse per loro. In questo caso - una soluzione di pace che include il riconoscimento dello stato Palestinese e costringerebbe Israele a fare dei passi indietro e liberare i Territori Occupati , Netanyahu ha bacchettato subito a Obama. E per fargli capire chi comanda veramente ha schierato la sua arma più potente- l'AIPAC , il lobby pro-israeliano più grande d'America, un potentissimo gruppo che fa pressione su Washington.
E' qui che Obama ha avuto la sua crisi d'identità, con sintomi di alterazione del pensiero, del comportamento e dell'affettività, con una gravità tale da limitare le sue normali attività. E' andato a parlare alla convention di AIPAC, chiedendo comprensione per la sua posizione della politica estera. Questo dopo che è stato rimproverato da Netanyahu. Durante l'incontro nella Casa Bianca il premier israeliano ha sottolineato che la sua visione per la pace è surreale, ha reagito in un modo molto duro, dicendo che non accetterà questa soluzione diplomatica. Non basta quello, il premier ha fatto capire a Obama che perderà l'appoggio della comunità ebraica americana, in tutti i sensi. Non dimentichiamo che si avvicinano le elezioni,e Obama spera di fare il bis. Perdendo gli ebrei è scontato che perderà le elezioni.
Così alla convention il presidente americano ha corretto il suo discorso, dicendo che i confini di 1967 dovrebbero servire soltanto come punto di partenza dei negoziati, cosa ben diversa di quello che aveva detto qualche giorno fa. 
Perchè un presidente degli Stati Uniti va a parlare a una convention che appoggia un potere straniero e chiede comprensione sulla sua posizione con rispetto per questo potere straniero, si chiedono i blogger americani? Perchè il Congresso dei Stati Uniti ha convocato una sessione speciale, onorando questo potere straniero e dando piena libertà al suo leader di esporre la sua linea politica, nonostante che questo stesso ha pubblicamente rimproverato e travisato il Presidente americano?
Forse c'erano soluzioni migliori. Forse Obama poteva cancellare la sua visita alla convention dell'AIPAC, e il Congresso poteva cancellare la sua sessione, evitando così di dare tutto questo spazio a Netanyahu. Forse è arrivato il momento in qui i leader politici americani in Washington fermano il loro servilismo vergognoso e cominciano a comportarsi nel migliore interesse del loro stesso popolo. L'abietto sopporto ad ogni cosa che Israele decide di dire o fare non è soltanto stupido ma anche controproducente.
In tanto, lo stesso popolo israeliano è contrario alla linea del suo premier, il 57% si sono espressi in modo negativo su quanto è accaduto in America. Magari volevano iniziare a credere nella soluzione pacifica, non si sa.Ma se i israeliani venissero a sapere quale disegno viene ordito alle loro spalle? Se scoprissero che qualcuno sta meditando per far scoppiare un conflitto internazionale proprio nella loro terra, come mai visto prima?
Quando Benjamin Netanyahu divenne premier, aveva promesso di formulare una strategia di pace, un accordo con l'Autorità Nazionale Palestinese: "sorprenderò il mondo con una iniziativa di pace che nessuno ha mai visto prima!", aveva detto. Anche lui con con sintomi di alterazione del pensiero, del comportamento e dell'affettività, con una gravità tale da limitare le sue normali attività.
Invece il rischio di scontrare Israele contro un muro di recesso mondiale è sempre più presente. Una volta che la polvere della tempesta mediatica si assesta, i cittadini israeliani saranno di fronte a una crudele realtà: lo spettro del isolamento e l'aumento della pressione internazionale sempre più in crescita e l'aumento della pressione da tutte le parti.
Non dobbiamo indirizzare l'odio contro nessun popolo, ma vogliamo tutti avere il diritto di ribellarsi contro i governi che di tale popolo fanno uno schiavo per i propri abominevoli fini.

Il popolo di pecore crea governi di lupi.















venerdì 20 maggio 2011

Di cosa sono fatte le sanzioni di Obama?


La Siria ha respinto le sanzioni degli Stati Uniti imposte al presidente Bashar Al-Asad e a sei dei suoi principali collaboratori per violazioni dei diritti umani. Secondo AFP l'amministrazione di Asad ha dichiarato che questo è soltanto l'ennesimo tentativo dell'America di impostare la sua politica nella regione."Le misure americane sono parte di serie di sanzioni, imposte da amministrazioni americane consecutive contro il popolo siriano, come parte di uno schema regionale che ha lo scopo primario di servire gli interessi di Israele", riferisce l'agenzia ufficiale Sana e aggiunge: "Ogni aggressione contro la Siria è analoga ad un aiuto americano per l'aggressione israeliana contro la Siria e il mondo arabo, le sanzioni si spiegano solo con il tentativo degli USA di prolungare la crisi in Siria."
"Gli Stati Uniti condannano nella maniera piu’ forte possibile l’uso della forza contro i dimistranti da parte del governo siriano. Questo atroce ricorso alla violenza per fermare la protesta deve finire subito. Il presidente Bashar al Assad – dice il presidente Usa – accusa gli osservatori esterni, mentre sta cercando l’aiuto iraniano nel reprimere la libertà dei cittadini siriani, attraverso le stesse azioni brutali che sono state usate dai suoi alleati di Teheran”.Si alza la posta in questo conflitto che secondo le organizzazioni umanitarie ha costato la vita di al meno 800 persone. Nel frattempo continuano le repressioni sanguinose a Damasco, Homs, Aleppo (Halab), Arida, dove migliaia di siriani sono scesi in piazza a manifestare contro il regime di Al Asad. Sono stati distribuite le immagini della fossa comune, scoperta nella parte vecchia di Deraa, dove furono trovati oltre 40 cadaveri di civili, tra essi anche donne e bambini .L’organizzazione internazionale americana Human Rights Watch ha indicato che il regime sta dando la caccia ai parenti degli oppositori politici e dei difensori dei diritti dell’uomo che si sono nascosti per sfuggire all’arresto, imprigionandoli e torturandoli per farli confessare. Il regime di Asad nega l'esistenza della fossa comune. Cosa è che realmente preoccupa Obama e lo spinge di offrire due miliardi di dollari per 'ricostruire la democrazia' nel mondo arabo, offrendogli un nuovo 'Piano Marshall', versione araba? La stampa araba accusa Obama di voler comprare la rivoluzione araba e godersi vittorie che non gli appartengono, gettandosi tra le braccia dei neoconservatori (un network di persone che lavorano insieme da un trentennio, animato per la gran parte da ebrei americani e si pone alla testa di una coalizione che comprende la destra reppublicana nazionalista tradizionale-Dick Cheney e Donald Rumsfled-e la destra cristiana-Gary Bauer e Ralph Reed).
Sarà preoccupato per il destino del popolo siriano o più che altro per il destino di Israele, che ritiene ancora i suoi confini con la Siria quelli più sicuri?
O quello che gli fa paura è una eventuale alleanza tra Asad e Ahmadinedjad?
Occhi internazionali puntati su Damasco, quindi, ma non solo occidentali. L’esito della rivolta siriana riveste un ruolo determinate per il futuro del Medio Oriente. E ne sono ben consapevoli gli ‘amici’ iraniani e libanesi di Hezbollah. “Un cambio di regime in Siria minaccerebbe una fondamentale rotta per rifornire di armi Hezbollah, sottrarrebbe all’asse Iran-Siria-Hezbollah-Hamas il suo cardine arabo, indebolirebbe la capacità di deterrenza di Hezbollah nei confronti di Israele e negherebbe ai leader di Hezbollah e alle loro famiglie un rifugio sicuro qualora si sentissero minacciati da Israele, come è avvenuto nel 2006”, sostiene Randa Slim su Medarabnews. La fine di Bashar al-Assad in Siria costituirebbe un grave colpo per Hezbollah e per l’alleato Ahmadinejad. Il presidente iraniano, dopo aver gioito per la caduta dei regimi egiziano e tunisino ed aver sostenuto la rivolta sciita in Bahrein, guarda con attenzione alle manifestazioni siriane. La rete di finanziatori, armi, uomini e terroristi che collega l’Iran alla Siria e al Libano di Hezbollah ha la sua roccaforte proprio nella capitale siriana. Bashar al-Assad, per Hezbollah e Iran, era e resta una garanzia. Se il regime di Damasco cadesse, l’Arabia Saudita riuscirebbe facilmente a trarre vantaggio dalla situazione, facendo leva sulla maggioranza sunnita e espandendo la sua influenza incontrastata sull’intera area mediorientale. E questo Teheran proprio non può permetterselo.








giovedì 5 maggio 2011

Perchè la pace tra Fatah e Hamas fa così tanta paura a Israele?

4 maggio 2011. Al Cairo si è firmato lo storico accordo tra le due principali frazioni Al- Fatah e Hamas, tra Khaled Mashaal e Mahmoud Abbas.Il documento prevede la formazione di un governo transitorio ed elezioni parlamentari e presidenziali entro un anno. Un conflitto interno( النزاع بين فتح و حماس‎) per il controllo dei territori palestinesi che dura da più di quattro anni. A questo accordo sono appese ora le fragili speranze del popolo palestinese. L'occupazione dei territori deve finire. Per Israele la riconciliazione delle due è inaccettabile e non piace affatto.Per Hamas, dicono, è solo una tattica di sopravvivenza. Il treno dalla riconciliazione è partito dal Cairo, la pagina nera della divisione è chiusa (e si spera) per sempre.Gioia in Cisgiordania e Gaza. La folla inneggia all'unità e ripete: 'mai più divisioni!' 
Ma perchè non guardare questa come una iniziativa di pace invece di una minaccia? 
Israele non accetta nessuna trattativa se c'e Hamas in mezzo. Hamas non riconosce il diritto dello stato d'Israele.C'e una via di uscita?Il premier Netanyahu ha richiesto qualche giorno fa a una delegazione di membri del congresso USA che l'America dovrebbe considerare il blocco del'aiuto economico all'autorità Palestinese se il governo unito Hamas-Al-Fatah non riconosce Israele e non rinuncia al terrore.L'Autorità Palestinese è stata invitata a scegliere tra la pace e Hamas.Posizione dura anche da parte di Ehud Barak che ha chiesto ai suoi amici al livello internazionale di non trattare con Hamas.Quindi un boicottaggio netto sul'accordo da parte di Israele su questo nuovo accordo.
A questo punto come si fa ad avere un governo legittimo,democratico, eletto dal popolo palestinese e un piano di pace nel Medio Oriente se non si dà l'appoggio internazionale?Appoggio che però veniva dato pienamente ad Fatah e Mahmud Abbas dall'amministrazione statunitense che finanziò e armo la sua Guardia Presidenziale nel conflitto armato con Hamas.Quale è la differenza tra le due frazioni?
Al- Fatah (' فتح'), da prescindere dal fatto che ha partecipato nel conflitto armato, chiamato anche guerra civile palestinese, riconosce lo stato di Israele e i principi del Quartetto (USA, Russia, EU e ONU).
Hamas invece no. Hamas rifiuta ogni forma di influenza esterna. Sarebbe però opportuno farla partecipare in un governo legittimo come è successo in Libano con Hesbollah (حزب اﷲ ) o come sta per succedere con i Fratelli Musulmani in Egitto (حزب اﷲ ).E' un approccio molto complessivo. Non è un dialogo senza condizioni ma potrebbe essere opportunità di dialogo con l'islam moderato (visto che Hamas viene considerata tra le più moderate nel territorio di Gaza)
Israele teme la pace in Palestina. Perchè è una cosa fattibile. Magari anche vicina. Proprio quello che ci vuole.




Palestina Libera!











martedì 3 maggio 2011

Baby cercatori di diamanti in Sierra Leone

http://www.missioni-africane.org/590__Sierra_Leone_i_baby-cercatori_di_diamanti

Blood Diamonds-capitolo 3



Kimberley affonda a Ginevra

Da questa città, vera base off-shore, transitano indisturbate ogni anno gemme per un valore di 2 miliardi di euro. Acquistano un “passaporto svizzero”, perdendo la memoria e la provenienza, vanificando, così, il sistema di certificazione voluto dal Processo di Kimberley. Perfino Anversa, capitale del commercio diamantifero, critica le maglie larghe ginevrine. Rue du Grand Lancy 6, La Praille. Zona industriale di Ginevra. Da un lato l’aerogare, dall’altro il piccolo quartiere residenziale di Carouge. In un imponente palazzone grigio-bianco di quattro piani ha sede la Società anonima dei porti franchi e depositi di Ginevra. Sulla sinistra, 140mila metri quadri di magazzini, casseforti, container, cantine, uffici. Una superficie pari a circa 22 campi da calcio.Una vera e propria base off-shore nel bel mezzo dell’Europa, un’enclave magicamente al di sopra – o al di sotto – delle leggi, da cui transitano ogni anno, indisturbati, diamanti grezzi per un valore che supera i 3 miliardi di franchi svizzeri (circa 2 miliardi di euro).Districare la fitta ragnatela di agenzie intermediarie abitualmente incaricate di seguire le formalità doganali e vigilare sulle operazioni di import-export per conto di clienti, nella totalità dei casi protetti dalla discrezione più assoluta, è impresa ardua, quando non del tutto impossibile. Le parole d’ordine della casa sono “riservatezza”, “discrezione”, “anonimato”, “fiducia”, privacy. Di recente, perfino Anversa, capitale mondiale della lavorazione e del commercio di diamanti, ha criticato le maglie larghe dei porti franchi di Ginevra e Zurigo. Dal Belgio passano, infatti, l’80% dei diamanti grezzi e il 50% di quelli tagliati sul pianeta, per un giro di 26 miliardi di euro l’anno.
Molti vengono dalla Svizzera e dai suoi porti. In base all’articolo 42 della legge federale sulle dogane, si tratta, a tutti gli effetti, di zone extra-territoriali in cui le merci, per lo più beni di lusso, possono essere stoccate indefinitamente, disimballate, divise, riconfezionate e spedite a piacimento, sfuggendo, di fatto, a qualsiasi ispezione. «Temporanea sospensione di leggi e tasse», la chiamano i dirigenti della società. No man’s land, per intenderci. Il diamante che passa per il porto franco acquista una sorta di “passaporto svizzero”, perdendo, quindi, la memoria: i documenti che ne attestano la provenienza vengono annullati e nuovi colli, contenenti diamanti di diversa origine, ripartono oltre confine, principalmente verso Olanda, Inghilterra, Stati Uniti, Libano o Israele. Nessuno si domanderà più da dove arrivano.

Oasi intoccabili 

L’esistenza di simili “oasi” sovra o extra doganali, che neanche gli accordi bilaterali hanno per ora avuto il potere di scalfire, ha sollevato nel tempo più di un’obiezione. Che reali possibilità di applicazione ha, di fronte ai porti franchi, il sistema di certificazione e controllo di gemme grezze, noto come Processo di Kimberley? Processo approvato nel gennaio del 2003 dal World Diamond Council e da circa 71 governi per ostacolare la vendita dei “diamanti insanguinati”, cioè estratti in zone di guerra. Le opinioni discordano. La direzione dei porti franchi sembra piuttosto soddisfatta del sistema. «Tanto l’ingresso quanto l’uscita dei diamanti grezzi dai depositi è strettamente vincolata alla presentazione di un certificato d’origine, numerato e debitamente rilasciato dalla Segreteria di stato (Seco)», spiega Yves Bonnier, direttore della Valimpex S.A. e cliente dei porti franchi di Ginevra. Il movimento (in gergo, il transito) delle gemme grezze verso e dall’esterno viene, dunque, scrupolosamente monitorato. Eppure, a Berna i funzionari dell’Amministrazione federale delle dogane (Afd), che avrebbero il potere di sequestrare eventuali lotti di diamanti non in regola, ammettono che i “controlli”, a causa della cronica carenza di personale, sono, in realtà, «assai sporadici» .Tanto che non risulta alcuna anomalia dal 2003. Il fatto è che, se un occhio al numero del certificato di Kimberley è ormai routine, assai più rara è, invece, la verifica che il peso in carati dichiarato sul certificato corrisponda effettivamente a quello del collo in uscita, o che, a parità di carati, il valore di ciò che esce sia lo stesso di quello entrato. Insomma, spesso i conti non tornano. «Nel 2004 e 2005», spiega il giornalista Gilles Labarthe, che sul transito di diamanti nei porti franchi ha recentemente svolto un’indagine approfondita, «a parità di carati, il valore dei diamanti grezzi dichiarati all’ingresso dei porti franchi è, inspiegabilmente, raddoppiato all’uscita, passando da 880 milioni di dollari a 1,6 miliardi nel 2004 e da 1,5 miliardi a 2,2 miliardi nel 2005».

Le denunce

Organizzazioni come Global Witness, Human Rights Watch e Amnesty International, che hanno ripetutamente sollevato il problema del contrabbando e del riciclaggio nel circuito legale di diamanti grezzi provenienti da paesi sotto embargo, considerano, per parte loro, i porti franchi svizzeri «un pericoloso e tendenzialmente incontrollato centro di smistamento di diamanti di dubbia origine», che, tuttavia, non fa che aggiungersi alle altre possibili vie d’accesso al mercato diamantifero. Sempre più spesso, infatti, paesi come il Sudafrica e la Svizzera eludono le sanzioni internazionali, facendo transitare il grosso delle partite di gemme grezze attraverso paradisi fiscali come Panama, le Bahamas o le Isole Vergini. «Il Processo di Kimberley ha introdotto alcuni miglioramenti», nota il portavoce di Amnesty, senza troppi entusiasmi, «ma gli stati coinvolti nel commercio mondiale dei diamanti e l’industria del settore non fanno ancora abbastanza per sradicare completamente questo traffico». Il 65% dei 130 milioni di carati che ogni anno girano il mondo proviene dall’Africa, dove i confini nazionali sono, per così dire, piuttosto porosi ed episodi di corruzione e favoreggiamento non infrequenti. L’ultimo in ordine di tempo è stato denunciato lo scorso ottobre in un rapporto delle Nazioni Unite, che ha accusato il Ghana – per altro firmatario del Processo di Kimberley – di essere attivo sul mercato dei diamanti provenienti dalla Costa d’Avorio, alimentando la guerra civile che, dal 2002, spacca il paese in due. Né va dimenticato che, quando si parla delle regole e certificazioni introdotte con gli accordi siglati a Kimberley, s’intende, in realtà, un meccanismo di autocontrollo volontario e interno, facilmente falsificabile e che lascia spazio a numerose scappatoie. Come, del resto, dimostra l’ultimo rapporto di Global Witness sulle gioiellerie americane e inglesi, intitolato Déjà vu: la metà delle case interpellate dall’organizzazione, a proposito delle garanzie adottate per controllare l’origine dei diamanti venduti, ha preferito non rilasciare dichiarazioni; il 56% ha ammesso di non aver alcuna politica.

Potere del consumatore

La palla passa, a questo punto, al consumatore, il solo ad avere il potere di esercitare una massa critica capace di fare pressione sull’offerta. Organizzazioni internazionali come Amnesty International e Global Witness ne sono convinte e hanno persino ideato una Guida all’acquisto per chi si appresta a comperare un diamante: una semplice lista di domande da porre all’orefice, tanto per togliersi il dubbio. Si va dalla richiesta della certificazione alla sottoscrizione di un codice di condotta conflict-free.
«Sulla 47ª, a New York, tuttavia, è ancora possibile presentarsi con i diamanti in tasca e venderli senza che nessuno faccia domande sulla loro provenienza», racconta Kadir Van Lohuizen, un fotografo olandese che per due anni ha seguito la rotta dei diamanti, dalle miniere di Bakwa Bowa in Congo o di Bula in Angola alle città indiane, come Surat, uno dei più importanti centri al mondo per il taglio e la pulizia delle pietre, fino alle scintillanti vetrine della Grande Mela.
L’industria dei diamanti sta cambiando, spiegano gli esperti. I grandi cartelli degli anni Novanta (la De Beers davanti a tutti) lasciano il posto ai piccoli produttori – il Kimberley Diamond Group, la Trans Hex e la Gem Diamond – e il settore si fa più competitivo, agguerrito e dinamico, dunque, per certi versi, più sano. Buono a sapersi. Ma la cautela è d’obbligo. La comparsa sul mercato di produttori più piccoli non è, infatti, necessariamente una garanzia di una gestione più trasparente. E il fatto che i diamanti siano sempre meno “insanguinati” non vuole automaticamente dire che siano più “etici”.

Blood Diamonds-capitolo 2




Sul piano tecnico (quello degli sforzi per far sì che i diamanti grezzi esportati dalla Sierra Leone fossero accompagnati da una certificazione ineccepibile) il risultato più apprezzabile era stato raggiunto con la costituzione di una Commissione tecnica che mettesse a punto un processo di certificazione (chiamato "Il procedimento Kimberley", dal nome della città sudafricana con un ruolo chiave nella estrazione e nel commercio dei diamanti).
Il "Kimberley process" è stato costituito su iniziativa del Sudafrica da rappresentanti di governi, organizzazioni internazionali (ONU), numerose Organizzazioni non governative, e operatori economici del settore diamantifero, per arrivare alla definizione di un sistema di certificazione dei diamanti grezzi che possa garantire la provenienza da legittimi impianti di estrazione. L'obiettivo è quello di fermare il commercio illegale di questi diamanti, che costituisce la principale fonte di finanziamento per l'acquisto delle armi che alimentano i conflitti e provocano le conseguenti gravissime violazioni dei diritti umani.
Nella riunione del Comitato tenuta a fine Novembre 2001 in Botswana, è stato definito un quadro complessivo di riferimento per la certificazione, che comincerà a essere applicata a metà 2002 e sarà pienamente effettiva alla fine del 2003. Esistono, infatti, ancora delle obiezioni di metodo e di principio da parte di un gruppo di ONG che hanno partecipato attivamente ai lavori (Action Aid, Amnesty International, Fatal Transactions, Global Witness, Oxfam International, Partnership Africa Canada, Phisician for Human Rights, World Vision) e che hanno richiesto specifiche più stringenti sui paragrafi 13,14 e 15 della VI Sezione della procedura: in particolare, sulla raccolta dei dati relativi all'estrazione, sul meccanismo di coordinamento e sulle regole che presiedono all'attività di monitoraggio.
Sostengono le necessità di questi rigidi controlli alcuni Stati -soprattutto africani- come Sudafrica, Botswana, Namibia che sono forti produttori di queste pietre (questi tre stati insieme producono grezzo per 4 miliardi di dollari), e temono i possibili contraccolpi negativi sul mercato per effetto di campagne di controinformazione e boicottaggio, e anche i protagonisti economici del mercato come la De Beers, il Consiglio Mondiale dei diamanti, l'Associazione Internazionale dei Produttori di diamanti.
Alcuni grossi paesi - invece - sono restii a introdurre la certificazione obbligatoria: ad esempio gli USA, che acquistano il 65% dei diamanti venduti in tutto il mondo (anche se proprio gli USA hanno approvato a fine Novembre 2001 il "Clean Diamond Trade Act" che impone controlli alla importazione di diamanti provenienti da zone di conflitto), o la stessa Russia, produttrice di gemme grezze per quasi 2 miliardi di dollari. Forti resistenze si registrano implicitamente anche da parte di paesi come Israele e India che effettuano lavorazione e taglio di gemme grezze rispettivamente per oltre il 25% ed il 40% del totale mondiale.
Senza l'approvazione da parte del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, che darebbe alla procedura il crisma della obbligatorietà, non ci sarebbero controlli né certificazioni.
Il Kimberley Process dovrebbe garantire il riconoscimento della provenienza dei diamanti lavorati e commercializzati in tutto il mondo, per impedire che le pietre provenienti da aree di conflitto entrino nel commercio lecito. Ma il commercio dei diamanti insanguinati ha trovato un'altra strada: la Svizzera. Kimberley è il nome della cittadina sudafricana che ospitò il primo dei numerosi incontri atti a discutere e regolamentare la produzione e il commercio di diamanti, garantendone la provenienza ed escludendo dal mercato internazionale le pietre provenienti dalle zone di conflitto. L’accordo che porta questo nome fu firmato nel 2002, dopo le sollecitazioni delle Nazioni Unite, da 37 paesi e dai maggiori produttori e commercianti di diamanti, come De Beers. Dal momento della fondazione ad oggi, l’accordo si è allargato ed include più di 70 paesi: tutti i maggiori produttori di diamanti e gli acquirenti principali, inclusi tutti gli stati facenti parte dell’Unione Europea. I controlli sono divenuti sempre più precisi ed efficaci, riducendo sensibilmente la fetta di mercato occupata dal commercio di diamanti insanguinati, la cui vendita andava a finanziare le guerre civili. Secondo i produttori si è passati dal 4% del 1990 all’1% attuale, con un trend ancora in calo.
Come si possono ottenere simili risultati? Semplice: per poter far parte dell’organizzazione, ogni stato deve soddisfare determinate caratteristiche:
1) i diamanti provenienti dal paese non devono essere destinati a finanziare gruppi di ribelli o altre organizzazioni armate che mirano a rovesciare governi ufficialmente riconosciuti dalle Nazioni Unite;
2) ogni diamante esportato deve essere accompagnato da un certificato, redatto dallo stesso paese esportatore, che garantisca il rispetto del processo;
3) divieto di commerciare diamanti con paesi che non aderiscano al Kimberley Process.
In linea di massima queste tre disposizioni dovrebbero impedire la commercializzazione di pietre provenienti da zone di conflitto, tuttavia aggirare il sistema non è certo cosa impossibile, soprattutto in alcuni paesi. Nigrizia denuncia però chiaramente come le maglie del controllo in Svizzera si facciano decisamente meno fitte. 
Segue in capitolo 3.

Blood Diamonds



Il vero costo dei diamanti



Cosa sono i diamanti di conflitto?

I diamanti di conflitto,conosciuti anche come diamanti insanguinati sono i diamanti usati da gruppi di ribelli per finanziare conflitti brutali e guerre civili in Africa.Quei diamanti che sono prodotti in zone conquistate e controllate da forze ribelli che si oppongono a governi legittimamente eletti o per lo meno riconosciuti dalla comunità internazionale, o quei diamanti che in ogni caso possono collegarsi (per mezzo del loro commercio, contrabbando, utilizzo) a gruppi ribelli e eversivi, sono da definire diamanti di conflitto. Le guerre alimentate dai diamanti insanguinati hanno ucciso più di 4 milioni di persone, distruggendo paesi interi e sfollando milioni in Angola, Sierra Leone, Liberia, Costa D'Avorio e Congo. Spesso servono per finanziare gruppi terroristici come Al-Quaeda, o gruppi di ribelli come RUF(Revolutionary United Front) di Sierra Leone, UNITA di Angola, INPFL di Liberia o i 25 gruppi armati che partecipano nella guerra civile di Congo durata dal 1998 al 2003, coinvolgendo otto paesi africani e devastando completamente il territorio africano. Le guerre civili dell’Angola, della Sierra Leone e del Congo sono stati l’esempio più palese dell’uso dei diamanti da parte dei ribelli per condurre la loro guerra contro i loro governi.

Ma perchè proprio i diamanti?

I diamanti sono una forma di ricchezza altamente concentrata, perché localizzata solo in aree geografiche molto circoscritte. Il loro sfruttamento può offrire profitti enormi. Oltre a ciò, i diamanti sono di piccole dimensioni, e facili da nascondere. Possono essere estratti per mezzo di sofisticate tecniche e costosissime apparecchiature, ma anche scavati manualmente con mezzi semplici e a nessun costo. D’altro lato, gli eserciti ribelli hanno bisogno di finanziamenti per comprare armi e munizioni, per pagare e nutrire le truppe e mantenere vive le alleanze strategiche. Dalla fine della guerra fredda, i protagonisti delle guerre civili africane non hanno più accesso ai fondi delle due ex-superpotenze necessari a mantenere l’apparato militare o il regime politico. Per alimentare le proprie guerre, questi paesi hanno dovuto ripiegare su quei beni che, prodotti localmente, sono facilmente piazzabili sul mercato internazionale e convertibili in divisa, come il legname pregiato, l’avorio, l’oro e, appunto, i diamanti. All'inizio del 2000, Amnesty International - insieme ad altre organizzazioni - ha lanciato la campagna mondiale sui diamanti insanguinati: da allora, l'espressione "Un diamante è per sempre" suscita in molti un sentimento di inquietudine e di istintiva repulsione, tant'è che sembra essere stata accantonata dalla De Beers che la utilizzava nella propria pubblicità. Consumatori, produttori, commercianti di gioielli e oreficeria hanno scoperto che potrebbero essere stati inconsapevolmente implicati in uno dei conflitti che hanno devastato - e ancora devastano- una larga parte del continente africano (soprattutto Angola, Sierra Leone, Liberia, Repubblica Democratica del Congo). I diamanti estratti - spesso da civili obbligati sotto la minaccia delle armi - nelle zone controllate da gruppi di ribelli armati sono, infatti, la principale fonte di finanziamento per l'acquisto delle armi e dell'equipaggiamento militare che alimentano queste guerre, causando grandi masse di sfollati, omicidi, stupri, mutilazioni, uso di bambini soldato. L'Onu ha bandito, a luglio 2000, il commercio di armi in Sierra Leone e sottoposto quei diamanti a controlli. Il Consiglio d'Europa ne ha vietato il commercio fino all'inizio del 2002. A distanza di quasi due anni, si continuano a raccogliere i frutti di questo lavoro:
• il 22 giugno 2001, il Consiglio mondiale dei diamanti, che presiede alla commercializzazione di tutti i diamanti grezzi, Amnesty International e altre associazioni hanno espresso in una dichiarazione comune il loro sostegno al "Clean Diamonds Act", introdotto dal Senato degli Stati Uniti per proibire l'importazione dei diamanti provenienti da zone di conflitto e imporre gravi sanzioni a chi li commercia;
• il 5 luglio, i rappresentanti di 34 governi e della Commissione europea hanno concordato a Mosca le linee generali di un sistema internazionale di certificazione dei diamanti grezzi in modo da escludere dal commercio il contrabbando;
Un risultato dovuto in massima parte al lavoro infaticabile e spesso poco appariscente di centinaia di migliaia di persone nel mondo, che per mesi e mesi hanno inviato lettere e appelli a governi, istituzioni intergovernative, aziende, commercianti, sensibilizzato l'opinione pubblica. Esponenti del business dei diamanti a tutti i livelli sono stati chiamati a garantire che non commerciavano in "diamanti sporchi". In questo modo, consumatori grossisti e gioiellieri hanno cominciato a fare domande scomode ai propri fornitori. La De Beers, che controlla quasi i due terzi del commercio mondiale - dopo alcuni lunghi silenzi e un imbarazzato comunicato del marzo 2000 - ha dovuto impegnarsi a eliminare dai propri acquisti i "diamanti insanguinati".
Un lavoro iniziato nel 1991, quando Amnesty ha denunciato - inascoltata - i rischi insiti nelle vicende della Sierra Leone: il traffico illegale di armi e il loro uso per gravi violazioni dei diritti umani, la piaga dei bambini soldato, l'impunità concessa ai responsabili di gravi crimini contro l'umanità.



Più di 300.000 bambini combattono attivamente negli eserciti di oltre 40 paesi al mondo.




PeaceReporter - Colombia, Giustizia nel mirino

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